giovedì 28 marzo 2013

Bon Iver in tempesta




Stefania è andata sul facile. Abbiamo iniziato con un album di quelli che piace a tutti e due. Lei poi, lontana com'è, l'ha preso subito per un modo per teletrasportarsi sulle spiagge di questo posto che, per tanti e lunghi mesi, è dimenticato da Dio. Ora sono lì, a casa, e piove. Per le strade i volti che camminano, fianco a fianco, per difendersi da chissà che cosa ti danno il loro tiepido benvenuto. Anche io, quindi, dal mio angolo di casa dove si vede da una parte la tavola azzurra in lontananza dove Stef corre mano nella mano con Zachary Condon e dall'altra i monti innevati al confine con la Calabria, decido di andare sul facile: Bon Iver dell'omonimo gruppo si è messo su da solo su Grooveshark. Justin Vernon che sa bene cosa dirmi in queste serate, mette su il suo album migliore. O meglio, l'album litiga continuamente con For Emma, Forever Ago per la palma del miglior lavoro di uno dei tanti progetti musicali del giovane cantautore statunitense...che Dio lo benedica. L'album inizia con Perth. E porca miseria, che inizio. Quel riff che te lo aspetti da qualche grande. Questa cosa però la pensi solo all'inizio del tuo incontro con Justin (oh oh, che nome terribile però. Così bimbominchioso), poi ti accorgi che i Bon Iver sono grandi. Sono già tra i più grandi. La canzone va via con un'arrangiamento della madonna. La batteria ti fa capire che non c'è niente lasciato al caso. Ritmo, amore, passione. E se Stefania corre su quelle spiagge io sono già sotto una tempesta, tra una goccia e l'altra, a gridarle contro  che sono più forte io. Minnesota, Wi ti accoglie con un arpeggio che ti fa stemperare i bollori. Poi con la linea di chitarra elettrica così delicata e la voce profonda, in un agro dolce azzeccatissimo, ti accorgi che ti stai riscaldando per il top. Holocene è l'anticamera. Una delle più apprezzate del gruppo. All'inizio potrebbe anche confondersi con sonorità tipiche dei Sigur Ros. Il tipico timbro di Justin fa capire che non è così. C'è altro. Lo capisci quando inizia Towers. La mia preferita. Il riff è spaventoso. Geniale. Anni 70 andanti. Poi il sax e i fiati ci ricordano quanto questo gruppo sia all'apice tra i migliori rappresentanti del Indie Folk. Ascolto questa canzone è capisco perchè questo genere, giorno dopo giorno, conquisti regioni sempre più vaste del mio cuore. Bel testo, bel arrangiamento, bell'atmosfera e Wau Wa U (non so scemo, ascoltate). Michicant, come una fiaba, accompagna i sensi verso un rilassamento sensoriale che continua con Hinnom, Tx. In questi pezzi c'è una ricerca musicale che intravedo solo nei grandi gruppi post-rock degli ultimi anni. Stessa cosa per Wash. dove però Vernon torna ad esibirsi con il suo timbro da fuoriclasse. La canzone fa da interludio prima dell'altro grande pezzo dell'album: Calgary. "So it’s storming on the lake Little waves our bodies break". Che dicevo prima? Ecco, sono di nuovo in corsa sotto l'acqua. Sento ogni singola goccia rimbalzarmi addosso. Troverò riposo solo nell'ultimo pezzo. Già lo so. Ora però devo muovermi. ancora per un po', almeno fino alla fine del pezzo. Lisbon, è una breve suite musicale. Ben fatta. Qui davvero sembra made in Iceland. Non è così. Siamo ancora in Wisconsin. Ma per terminare un album sorprendente serviva l'ultima perla: Beth/Rest. Qui sembra esserci Phil Collins in uno dei suoi pezzi più ispirati. I synth, che potrebbero risultare fuori luogo, non lo sono. Il distorsore leggero accompagna in un onirico tappeto di note. Un'atmosfera dolce, calma. La mia corsa, praticamente, si ferma qui. Questa canzone è il viso che si alza verso il cielo per beccarsi l'ultima scarica della tempesta. Viene giù, proprio come si sperava in un pezzo dell'ex leader dei Genesis. Il solo finale sono le gocce che scorrono via insieme alla tempesta che ora è sedata. come alla fine di una corsa si respira a pieni polmoni. Ora sì che sto bene. Per me l'estate può attendere. Ho un inverno che è finito da troppo poco tempo per non finire i conti che abbiamo in sospeso. L'atmosfera di quest'album me lo farà affrontare per bene e alla fine me lo farà vincere. Inizio con una sicurezza, quindi. Ancora lontano dalle spiagge dove Stefania affronta il freddo inizio primaverile di Cambridge. Lontano da tutto. Ma più vicino possibile da quello che, musicalmente parlando, è il meglio per me.

Vi




Il video scelto è quello di Towers. Qui trovate una playlist su Youtube dell'album. Mentre qui l'intero album su Grooveshark con tre bonus Tracks.

mercoledì 27 marzo 2013

The Rip Tide e l'estate italiana.




Groupon non è sempre una sola: mesi fa ho comprato un paio di auricolari veho isolanti e antigroviglio. Vabbè, l’antigroviglio è palesemente una cazzata, ma isolanti lo sono davvero. Ed è questo ciò che conta. Sono in un bar italiano nel centro di Cambridge. Entro, lei mi dice “hello” ma dai lineamenti e dal sorriso a 32 denti capisco che è italiana. “Ciao!” rispondo con un sorriso a 32 denti anch’io. Ci brillavano gli occhi, lo so. Ci lamentiamo sempre dell’Italia e degli italiani; diciamo sempre “eh, classica merda italiana”. No no, ragazzi. Niente è come lei. Il calore della gente, i sorrisi degli sconosciuti, i poco raffinati complimenti dei muratori avvinghiati alla loro birra da 0,66 cl, il cibo, il clima. Dio Santo, il clima. Agogno i 20 gradi come poche altre cose. Come i ruccoli di nonna, forse.
Devo dire che non è freddo come ci si potrebbe aspettare.  In questo bar italiano nel centro di Cambridge ci saranno almeno 25 gradi. E per questo devo ringraziare Zachary. No, non è una nuova marca di condizionatori, è un ragazzo poco più grande di me, 27 anni, e una voce che sembra abbia iniziato il suo rodaggio nei magnifici anni 70. Avete presente quando mandate giù un sorso di cioccolata calda in una fredda serata d’inverno avvolti nella vostra coperta sul divano di casa? Ecco, la sua voce dà la stessa sensazione di tepore. Senti quel calore andare giù per l’esofago e propagarsi per tutto il corpo. Fa caldo ora. Credo che legherò i capelli. Nelle mie veho isolanti risuona The Rip Tide: Zachary e i Beirut sono riusciti a creare  un capolavoro musicale in un periodo in cui l’invasione della musica spazzatura ha seminato terrore quasi quanto quello che ha spinto un illuminato gruppo di argentini al suicidio di massa pre-fine del mondo.
9 tracce, poche parole e musica calda. Si distinguono un ukulele, una tromba, un tamburello, una chitarra e una voce che è come un quartetto d’archi nella basilica di san Pietro. Provo a chiudere gli occhi. Parte Santa Fe: ecco, mi vedo in macchina, posto accanto al guidatore, piedi sul cruscotto e mani che tengono il tempo battendo sulle ginocchia abbronzate dal caldo sole di luglio. Sono le 17 e noi stiamo tornando a casa dopo una giornata al mare. Finestrini spalancati, capelli scompigliati e guance arrossate e pelle salata. Zachary lasciami qui. Su questa strada, che necessiterebbe di una colata di cemento ma che il sole caldo delle 17 e il profilo sinuoso  degli alberi fanno sembrare come la route 15 Los Angeles - Las Vegas, mi sento libera, spensierata, felice. 
Parte The Rip Tide che dà il nome all’album. Note a tratti languide. I tasti di un pianoforte pigiati con decisione e delicatezza accompagnano questo pezzo coinvolgente che porta con sé la dolcezza indie delle voci gridate in bicchieri di vetro e quella musica che sa di terra. Quella terra umida che ti resta nelle unghie e che dà refrigerio ai piedi scalzi che ballano sotto il tuo vestito bianco di lino. Ora sei un po’ gitana. La tua gonna crea dei cerchi dai bordi imprecisi.
“Could you take me another large espresso, please?” Dannazione sono ancora qui. In un bar italiano nel centro di Cambridge con i miei auricolari veho isolanti, in un grigio giorno di marzo che niente ha di primavera.  Piove. I pneumatici delle auto inglesi schizzano l’acqua delle pozzanghere sul lato sbagliato della strada. Non m’importa. Zach e il mio caffè bollente mi portano lontano, dove c'è sempre caldo, sotto i 25 gradi dei tramonti estivi.

Ste