giovedì 25 aprile 2013

Babel e acqua fredda





Se l'Indie Folk fosse una squadra di calcio, Babel sarebbe una funambolica ala sinistra. Veloce, tecnica e con un'incredibile capacità di rientrare e tirare a rete facendo gol. Perché I Mumford and Sons il gol lo fanno. Credimi. Ti schieri contro e loro ti saltano come un birillo. Ti prendono e ti bevono come un bicchiere d'acqua. All'inizio li guardi con diffidenza. "Che fisico strano" "Sembrano simili a quell'altra ala ma quello sì che è un campione" "Ma può giocare in questo campionato?". Poi iniziano a giocare e non ce n'è per nessuno. Tecnici e fantasiosi. La paura che stiano lì lì per esagerare c'è sempre ma loro sono bravi a mantenersi nei limiti consentiti. Il banjo non rompe mai...o quasi mai. Sono giovani, magari in futuro riusciranno a offrire nuovi spunti, magari in maniera più europea ora sono puro sound americano, nonostante siano nati al di qua dell'oceano nella terra d'Albione. Un buon tennesee whiskey da gustare allungato con l'acqua per percepire meglio la spigolosità del sapore. C'è tanto delle vaste lande americane in quest'album. Ci sono i grossi van con gli adesivi delle aquile in volo dietro: Give Wildlife a change. Ci sono gli anni 60 e ci sono i miei amati Simon and Garfunkel. Ci sono davvero: una bella cover di "The Boxer" che ben lega col sound della band sarà il preambolo della chiusura di questo viaggio. L'album inizia con la canzone che da il titolo all'album. Mettono subito le carte in tavola e ti aggrediscono a colpi di cieli azzurri e vasti e un sole splendente poco sopra l'orizzonte. Il viaggio inizia senza accorgersene. Nelle canzoni dopo ti ritroverai in quelle locande tipiche delle strade del centro america con la cameriera che ammicca. Troverete il suo corpo nudo, sudato, pieno di vita, con quegli occhi che ti implorano di portarla con te verso la California. "No baby, un'altra volta." Un'altra volta perchè il viaggio è tuo. Qui, oltre la California, c'è da scoprire se stessi. Sì, è proprio uno di quegli album. E te ne accorgerai dalla doppietta "I will wait" e "Holland Road", una dopo l'altra. Spotify le ha sentite così tante volte che nei fastidiosi spot inizia a chiedermi di cambiare genere. La prima ti chiede semplicemente un prato dove correre. Non pretende molto. Se ci fosse una di quelle bionde vestite da indiano, tipica dei film americani, sorridente con i capelli raccolti sarebbe meglio: "aspetterò per te", avrebbe più senso. Sei fisicamente esausto ed è solo la terza canzone. cosa diavolo può esserci di meglio? C'è di meglio. Illumina la stellina. Fidati di Vincenzo tuo. Holland Road è una canzone geniale. La ballata che non ti aspetti. All'improvviso si acquietano. Forse è una tempesta estiva che ti travolge. Qui l'introspezione parte, dopo l'arpeggio iniziale, con il trillo del banjo e il ritmo serrato della chitarra. Qui c'è davvero il viaggio, con tutte le sue sfumature. Qui c'è la California, gli occhi della cameriera lasciata sola in quella bettola, c'è una terra lontana che bisognava lasciare a tutti i costi, c'è il verde del centro Usa e i deserti dell'ovest che finiscono, come una promessa di resurrezione nel Pacifico. Il cammino non è finito. "Ghost That We Knew" è come un rimpianto che ti prende all'improvviso. Dolce e tenero. "Lover of the light" ti rimette in carreggiata con il bel sound ibrido. "Lover Eyes" è in linea con le precedenti. Sembrano proprio due occhi nuovi, magari di una Mary Lou qualsiasi, amata in un Motel, e troppo presto abbandonata. O forse è lei che se n'è andata, con il portafogli e tutto. Qualsiasi sia la verità aveva begli occhi, Mary Lou. Ci pensi e "Reminder" è finita senza aver lasciato il segno. Troppo veloce. Qualcuna non ha voluto il tuo drink. Aggiungici l'acqua e manda giù. La strada è lunga e te lo ricorda "Hopeless Wanderer", una delle migliori dell'album. Qui Marcus Mumford si esalta. La sua voce melodiosa lascia spazio a tutte le sue increspature potenti. Sei su una decappottabile e sfrecci a tutta velocità. Le nuvole all'orizzonte non puoi raggiungerle ma sembra che te ne sia dimenticato. "Broken Crown" inizia che hai il piede ancora pesante. Cazzo, ma a quanto vai? Marcus grida come un pazzo e gridi anche tu verso il cielo del Texas diventato ormai scuro, nuovamente. Questa è la canzone più scura e tu devi fare i conti con te stesso o almeno con quella parte che vuoi scrollare e lasciare lì, negli States, a fare autostop. "Below my feet" annuncia che l'arrivo è vicino. "Not with Haste" è un altro drink mandato giù. Tanto fa bene. Su "For Those below" arrivi. Ti accoglie una festa country-folk e americani puro sangue che giustamente ascoltano la già citata cover del baluardo dei liberi anni 60. Bevi ancora, pensi a casa tua, così lontana. Ti perdi negli occhi di un'altra sconosciuta. Non pensi a niente se non al fatto che questo viaggio, la vita te lo doveva. Ma "Where are you now" come dice il titolo, ti ricorda che puoi anche correre fino in California ma poi ti chiederai sempre dov'è qualcuno. Qualcuno in particolare. Qualcuno da cui sei scappato. E capisci che hai fatto tutta quella strada, hai visto tutti quegli occhi tristi pieni di disperazione e non di libertà perché ora tu possa fare la strada al contrario e correre a risolvere un paio di casini. Vai, Babel dei Mumford and Sons potrà aiutarti. Sia che tu sia in viaggio verso lo sconfinato cielo californiano sia che tu voglia fermare un paio d'occhi che hai lasciato andare via troppo facilmente. Accendi la macchina, sistema lo specchietto. Il whiskey l'ho preso io.

Vi

mercoledì 24 aprile 2013

Calma piatta





La parola ‘spensierato’ dà un senso di leggerezza, di pace, di beatitudine. Porta con sé qualcosa di etereo, luminoso, paradisiaco. Se il punto in cui Dante incontrò Beatrice aveva un nome, io punto tutto su Viale Spensierato. Ma fermiamoci un attimo: letteralmente, spensierato vuol dire  senza pensieri. E quante volte abbiamo detto di sentirci spensierati? Tante, dai. Ora, se il buon Aristotele sillogismomane aveva ragione, da queste prime due tesi ne deriva che tante volte abbiamo vissuto senza pensieri. E adesso io vi chiedo: è possibile? E rispondo io per voi: no. Già il fatto di chiedersi, in un momento di presunta spensieratezza, se si sta pensando a qualcosa è già questo un pensiero! 
Va bene, pippe mentali a parte. Il senso di spensieratezza credo sia comunque raggiungibile. Attenzione, parlo di senso di spensieratezza, non di spensieratezza assoluta. È come la felicità. La felicità assoluta non esiste. Per quanto tu possa elencare tutti i fattori che ipoteticamente possono renderti pienamente felice, nel caso in cui un giorno dovessi averli tutti, comunque non saresti felice. Perché? Perché l’uomo è perennemente insoddisfatto e perché di rado si rende conto di quello che ha. Pensa sempre a quella microscopica cosa che gli manca e, se apparentemente non gli manca niente, vedrai che all’improvviso avrà l’urgenza di un assurdo qualcos’altro. Come quando hai davanti a te un piatto di patatine fritte, ketchup e maionese ma ti viene un’improvvisa voglia di mostarda. Dicevo? Devo smetterla di divagare. Ah sì, il senso di spensieratezza. Bene, si può raggiungere. Senza dubbio. Prova ad ascoltare Valtari dei Sigur Ros. La copertina dell’album funge da prologo a quest’epopea degna di un encomio pari a quello fatto alla bella Elena di Troia: c’è il mare, e le ombre, e luce filtrata e sembra un tramonto. Trai i pixel monettiani dell’immagine, emerge una nave, o forse una barca, a mezz’aria. È un viaggio nel vago, nell’indefinito, nel sublime. No, a sto giro non sto divagando. Clicco su Daudalogn: sono pronta a scommettere che il viandante sul mare di nebbia stesse ascoltando questa lassù. Ed ecco che il senso di spensieratezza esiste davvero. Chiudo gli occhi. Questa canzone dalla lingua incomprensibile (o per lo meno accessibile a pochi) mi fa sentire leggera e mi toglie dallo stomaco il peso della pizza al salame che ho mangiato stasera. Se davvero esiste un paradiso, sono convinta che passino questa.
Questo islandese criptico mi intriga: sembrano voci distorte di proposito per rendere i messaggi inaccessibili. Ed ecco Ekki Mukk, che per quanto possa sembrare minchione come titolo, nasconde un’altra perla. Seppure prettamente ambient, quest’album ha delle venature elettroniche decise, graffianti. Stridono come il dito su un piatto di porcellana appena uscito dalla lavastoviglie. No, non è un suono che dà fastidio. È penetrante. Ambient, elettronica e un paio di acuti dell’arcangelo Gabriele fanno di quest’album un corpo contundente. Dopotutto loro ci avevano avvisati: Valtari in islandese vuol dire rullo compressore. 

Stef