La parola ‘spensierato’ dà un senso di leggerezza, di pace,
di beatitudine. Porta con sé qualcosa di etereo, luminoso, paradisiaco. Se il punto
in cui Dante incontrò Beatrice aveva un nome, io punto tutto su Viale Spensierato.
Ma fermiamoci un attimo: letteralmente, spensierato vuol dire senza pensieri. E quante volte abbiamo detto
di sentirci spensierati? Tante, dai. Ora, se il buon Aristotele sillogismomane
aveva ragione, da queste prime due tesi ne deriva che tante volte abbiamo
vissuto senza pensieri. E adesso io vi chiedo: è possibile? E rispondo io per
voi: no. Già il fatto di chiedersi, in un momento di presunta spensieratezza,
se si sta pensando a qualcosa è già questo un pensiero!
Va bene, pippe mentali a parte. Il senso di spensieratezza
credo sia comunque raggiungibile. Attenzione, parlo di senso di spensieratezza,
non di spensieratezza assoluta. È come la felicità. La felicità assoluta non
esiste. Per quanto tu possa elencare tutti i fattori che ipoteticamente possono
renderti pienamente felice, nel caso in cui un giorno dovessi averli tutti, comunque
non saresti felice. Perché? Perché l’uomo è perennemente insoddisfatto e perché
di rado si rende conto di quello che ha. Pensa sempre a quella microscopica
cosa che gli manca e, se apparentemente non gli manca niente, vedrai che all’improvviso
avrà l’urgenza di un assurdo qualcos’altro. Come quando hai davanti a te un
piatto di patatine fritte, ketchup e maionese ma ti viene un’improvvisa voglia
di mostarda. Dicevo? Devo smetterla di divagare. Ah sì, il senso di
spensieratezza. Bene, si può raggiungere. Senza dubbio. Prova ad ascoltare
Valtari dei Sigur Ros. La copertina dell’album funge da prologo a quest’epopea
degna di un encomio pari a quello fatto alla bella Elena di Troia: c’è il mare,
e le ombre, e luce filtrata e sembra un tramonto. Trai i pixel monettiani
dell’immagine, emerge una nave, o forse una barca, a mezz’aria. È un viaggio
nel vago, nell’indefinito, nel sublime. No, a sto giro non sto divagando.
Clicco su Daudalogn: sono pronta a scommettere che il viandante sul mare di
nebbia stesse ascoltando questa lassù. Ed ecco che il senso di spensieratezza
esiste davvero. Chiudo gli occhi. Questa canzone dalla lingua incomprensibile
(o per lo meno accessibile a pochi) mi fa sentire leggera e mi toglie dallo
stomaco il peso della pizza al salame che ho mangiato stasera. Se davvero
esiste un paradiso, sono convinta che passino questa.
Questo islandese criptico mi intriga: sembrano voci distorte
di proposito per rendere i messaggi inaccessibili. Ed ecco Ekki Mukk, che per
quanto possa sembrare minchione come titolo, nasconde un’altra perla. Seppure
prettamente ambient, quest’album ha delle venature elettroniche decise, graffianti. Stridono come il
dito su un piatto di porcellana appena uscito dalla lavastoviglie. No, non è un
suono che dà fastidio. È penetrante. Ambient, elettronica e un paio di acuti
dell’arcangelo Gabriele fanno di quest’album un corpo contundente. Dopotutto
loro ci avevano avvisati: Valtari in islandese vuol dire rullo compressore.
Stef
Stef
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