mercoledì 24 aprile 2013

Calma piatta





La parola ‘spensierato’ dà un senso di leggerezza, di pace, di beatitudine. Porta con sé qualcosa di etereo, luminoso, paradisiaco. Se il punto in cui Dante incontrò Beatrice aveva un nome, io punto tutto su Viale Spensierato. Ma fermiamoci un attimo: letteralmente, spensierato vuol dire  senza pensieri. E quante volte abbiamo detto di sentirci spensierati? Tante, dai. Ora, se il buon Aristotele sillogismomane aveva ragione, da queste prime due tesi ne deriva che tante volte abbiamo vissuto senza pensieri. E adesso io vi chiedo: è possibile? E rispondo io per voi: no. Già il fatto di chiedersi, in un momento di presunta spensieratezza, se si sta pensando a qualcosa è già questo un pensiero! 
Va bene, pippe mentali a parte. Il senso di spensieratezza credo sia comunque raggiungibile. Attenzione, parlo di senso di spensieratezza, non di spensieratezza assoluta. È come la felicità. La felicità assoluta non esiste. Per quanto tu possa elencare tutti i fattori che ipoteticamente possono renderti pienamente felice, nel caso in cui un giorno dovessi averli tutti, comunque non saresti felice. Perché? Perché l’uomo è perennemente insoddisfatto e perché di rado si rende conto di quello che ha. Pensa sempre a quella microscopica cosa che gli manca e, se apparentemente non gli manca niente, vedrai che all’improvviso avrà l’urgenza di un assurdo qualcos’altro. Come quando hai davanti a te un piatto di patatine fritte, ketchup e maionese ma ti viene un’improvvisa voglia di mostarda. Dicevo? Devo smetterla di divagare. Ah sì, il senso di spensieratezza. Bene, si può raggiungere. Senza dubbio. Prova ad ascoltare Valtari dei Sigur Ros. La copertina dell’album funge da prologo a quest’epopea degna di un encomio pari a quello fatto alla bella Elena di Troia: c’è il mare, e le ombre, e luce filtrata e sembra un tramonto. Trai i pixel monettiani dell’immagine, emerge una nave, o forse una barca, a mezz’aria. È un viaggio nel vago, nell’indefinito, nel sublime. No, a sto giro non sto divagando. Clicco su Daudalogn: sono pronta a scommettere che il viandante sul mare di nebbia stesse ascoltando questa lassù. Ed ecco che il senso di spensieratezza esiste davvero. Chiudo gli occhi. Questa canzone dalla lingua incomprensibile (o per lo meno accessibile a pochi) mi fa sentire leggera e mi toglie dallo stomaco il peso della pizza al salame che ho mangiato stasera. Se davvero esiste un paradiso, sono convinta che passino questa.
Questo islandese criptico mi intriga: sembrano voci distorte di proposito per rendere i messaggi inaccessibili. Ed ecco Ekki Mukk, che per quanto possa sembrare minchione come titolo, nasconde un’altra perla. Seppure prettamente ambient, quest’album ha delle venature elettroniche decise, graffianti. Stridono come il dito su un piatto di porcellana appena uscito dalla lavastoviglie. No, non è un suono che dà fastidio. È penetrante. Ambient, elettronica e un paio di acuti dell’arcangelo Gabriele fanno di quest’album un corpo contundente. Dopotutto loro ci avevano avvisati: Valtari in islandese vuol dire rullo compressore. 

Stef


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